Anche per chi non ha subito direttamente lutti e malattia, l'irrompere del coronavirus ha rappresentato un'indubbia sofferenza, accompagnata dalla progressiva rinuncia a un gran numero di piaceri; inutile elencarli, è un'esperienza comune a tutti.
Fra i tanti piaceri, mi è venuto a mancare in gran parte il piacere del lavoro, o almeno gli aspetti piacevoli del lavoro, quelli che di norma attenuano fatiche insoddisfazioni e frustrazioni.
In questo periodo sto lavorando poco, se si considera il numero ridotto di visite e quello non aumentato, o forse addirittura leggermente diminuito, di telefonate e mail ricevute; ma il tempo dedicato è perfino aumentato, se si considera la reperibilità nei prefestivi e festivi recentemente introdotta. Tempo spesso vuoto e improduttivo, riempito dalla lettura quasi ossessiva di notizie, aggiornamenti, approfondimenti, incerte o anche incaute previsioni. Ma tempo comunque dedicato a lei, alla pandemia, come a lei sono dedicati quasi tutti gli spazi di giornali e telegiornali.
Ma pur lavorando tutto sommato meno del solito, mi capita di sentirmi spesso stanco; e non è solo depressione, anche se l'umore è naturalmente quello che è. Forse prevale un senso di scarsa utilità, anche se poi la gente si profonde in grandi ringraziamenti per ogni cosa che faccio o soprattutto dico, probabilmente perché sopravvalutano il nostro attuale lavoro, di sicuro perché nell'isolamento una voce amica, una telefonata o una mail fanno sentire compresi e ascoltati, in senso lato curati, al di là di quel che si dice.
Già, sto curando molto con le parole, del resto ho sempre affermato che la pediatria è un mestiere soprattutto di parole, per questo è così difficile curare le famiglie straniere, quando vi è scarsa comprensione della lingua. Ma le parole quando viaggiano sul telefono o sul computer vengono dette o sentite, scritte o lette dai genitori, non dai bambini. Che se già li coinvolgevamo in maniera insufficiente prima, ora rischiamo proprio di tenerli sullo sfondo.
Inoltre non si cura solo con le parole. Esistono anche gli sguardi, i gesti, a volte il contatto. La famosa comunicazione non verbale, insomma.
Tradizionalmente si parla sempre di cinque sensi. Abbiamo imparato che nei malati il Covid19 cancella gusto e olfatto. Ma a tutti noi, medici e pazienti sani o di cose più lievi o comunque diverse ammalati, mentre risparmia l'udito preclude in troppe occasioni la vista, delle persone care ad esempio (non penso sia sufficiente il surrogato offerto dagli schermi); e soprattutto inibisce l'uso relazionale del tatto.
Anche se uso i guanti mi viene spontaneo toccare poco i bambini. Dopo due mesi che non abbraccio più nessuno, ad eccezione della mia compagna, che mantengo le distanza prescritte e quando incrocio qualcuno per strada mi sembra buona educazione spostarmi un poco di lato, il contatto fisico con i pazienti mi pare innaturale. Mi limito all'essenziale.
Quando invece il contatto è parte integrale della cura: il paziente, anche l'adulto, ha bisogno di sentirsi coccolato, carezzato, contenuto fisicamente. Quando si studiava la semeiotica i momenti della visita consistevano nell'ispezione, nell'auscultazione nella percussione e nella palpazione. La mano sulla fronte rilevava la temperatura, sul torace l'itto del cuore e il fremito vocale tattile, sull'addome poi era essenziale per rilevare trattabilità, dimensione degli organi, eventuali masse; e per noi pediatri era anche importante palpare bene il cranio. L'importanza delle mani è stata sminuita e sostituita dal termometro, dal fonendo, dagli ecografi; ora rischia di essere cancellata dalle nuove abitudini.
E' vero, abbiamo affinato la capacità di fare domande, di analizzare situazioni e ipotizzare diagnosi a distanza. Se il bambino cammina e gioca non avrà la meningite, e tanto meno l'appendicite, se respira regolarmente e sotto una certa frequenza difficilmente avrà l'asma o la polmonite, se fa molta pipì probabilmente non sarà disidratato, diabete a parte...
Ma la mano sulla pancia non serve solo a diagnosticare, ma anche a rassicurare: la mamma che stiamo facendo una visita accurata, il figlio che stiamo controllando che non vi sia niente di brutto dentro. La mano sulla mano o sulle braccia o le spalle mentre si ausculta o si spiega al bambino che non ha nulla di grave, sono una fetta importante del processo di cura.
Per noi pediatri un po' brazeltoniani poi sorreggere un neonato o un lattante, metterli seduti o proni aiuta a mostrarne le competenze, a stimolare nei genitori i benefici rapporti di prossimità: cerco di farlo ancora, tuttavia mi viene meno spontaneo, e ho il pudore di avvicinarmi troppo al viso e al fiato dei genitori. Saranno davvero sani come appaiono, e io che qualche giorno fa avevo un lieve mal di testa e magari ho sternutito un paio di volte sono poi così sicuro di non albergare e diffondere il virus? I miei dispositivi di protezione abborracciati, saranno sufficienti? E se ne fossi dotato in maniera perfettamente dotato, il mio aspetto sarebbe compatibile col voler evidenziare la salute del bambino, le sue fisiologiche capacità? Già solo toccare con i guanti non equivale a trasmettere calore col palmo della mano nuda.
Così, questo è un aspetto del mio attuale disagio. Per prudenza, per conformarmi alle necessarie regole, per buona educazione, cerco di comportarmi con serietà e con un certo, come si suol dire, tatto. Ma così facendo mi scopro orfano proprio del tatto, del contatto fisico, amputato di gesti e azioni che quasi senza pensarci costituivano uno strumento importante delle mie capacità terapeutiche; non sarà per breve tempo, non so ancora per quanto, e soprattutto non mi è chiaro come possa supplirvi.
Gianni
Gianni
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