giovedì 23 aprile 2020

La nostra pandemia - Il deserto dei Tartari

Inizio marzo 2020.  Esco da una riunione in direzione sanitaria con l’infettivologo e i colleghi della medicina d’urgenza, sarà l’ultimo assembramento aziendale autorizzato prima del “lockdown”: l’epidemia, anzi la pandemia, è incominciata.  Sulle scale incontro il responsabile della Formazione. Con un sorriso, a bassa voce, mi dice “Si chiamava Drogo...?” e io annuisco; sì, il tenente del Deserto dei Tartari.  Ci siamo capiti al volo, e ho scoperto di non essere l’unica in questo stato d’animo.

Aspettiamo -tutti- che il contagio raggiunga il nostro ospedale, è questione di giorni. Già il primo paziente positivo è stato trasferito da un altro presidio (siamo uno dei riferimenti regionali). Arrivano circolari ed editti che mi sforzo di tradurre in indicazioni pratiche per il mio gruppo, calmando gli animi delle più spaventate o bellicose. 

Certo, il lavoro è diminuito.  Il calo degli accessi in pronto soccorso dimostra ampiamente quanto -in tempi normali- veniamo utilizzati come un ambulatorio gratuito e permanente. Ora la paura tiene lontani gli ansiosi e le scuole chiuse riducono le infezioni stagionali. Ma basta un caso sospetto a impegnare medico e infermiera per due ore: vestizione scrupolosa, visita, esami, eventuale accompagnamento “agli infettivi”, tamponi, svestizione -soprattutto- attenti a ogni gesto.

Qualche giorno dopo ho fatto una piccola riunione clandestina con le mie dottoresse e con qualche infermiera che era in turno; aggiornamenti sulle indicazioni aziendali, nuovi percorsi "sporchi" o "puliti" per i pazienti, ma anche -e questa si è rivelata l'intuizione migliore- per parlare del nostro compito in questa emergenza: non siamo rianimatori, non siamo in prima linea (almeno per ora), e a dirla tutta non abbiamo neppure granché da fare, con ambulatori ridotti e pronto soccorso quasi deserto. E allora?  Dobbiamo continuare il nostro lavoro usuale, soprattutto per i pazienti cronici; essere cooperativi verso le altre strutture (abbiamo ospitato nel nostro reparto tutta la neuropsichiatria, in fuga dall’area Covid, prestato una stanza pulita alla neonatologia per il follow-up dei prematuri); non dobbiamo fare errori (sul rischio infettivo); e -soprattutto- dobbiamo governare le emozioni nostre e di chi ci circonda. 
Se rovesciamo fuori la nostra tensione e la nostra paura, se alziamo i toni dell'allarme (noi che siamo "dentro l'ospedale" e per questo siamo considerati più autorevoli), se non usiamo la nostra preparazione per comunicare in modo responsabile, logoreremo in fretta noi stessi e gli altri. E non sappiamo quanto a lungo dovremo ancora reggere l'incertezza. E’ sempre più evidente che il contagio emotivo è peggio di quello infettivo!
Inizio aprile 2020.  Siamo ancora di vedetta. La parte “Covid” dell’ospedale è al completo, noi divisi tra la telemedicina e pochi -ma veri- malati.  Fuori è un mondo stravolto, mix di altruismi e di egoismi, grandi e piccoli, dai singoli individui alle nazioni; qualcuno manda colombe pasquali in regalo all' ospedale, e qualcun altro ruba una scatola di mascherine chirurgiche. Io sono grata ai piccoli negozi sulla mia strada verso l'ospedale, il fornaio, la fruttivendola, oasi accoglienti nel deserto.
Sono fiduciosa. Dopo questo grande isolamento, ogni piccola concessione di libertà sarà un regalo. Confido che la ricerca ci aiuterà: per i test, per le terapie, per un vaccino. E la lezione da non dimenticare - per me- sarà di non tornare più ai ritmi forsennati precedenti.

Eleonora

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