Ci piace pensare al congresso annuale dell'ACP come ad una storia di cui ogni anno viene narrato un pezzo. In realtà non è solo "una" storia, ma tante storie che si incrociano e che si spiegano a vicenda. C'è la storia dell'Associazione (con la A maiuscola) ma ci sono anche quelle dei gruppi locali e poi ancora le altre che vengono raccontate nell'ambito del congresso per arrivare alla storia di ciascuno di noi. Così, guardando il programma di quest'anno, non sarà difficile coglierne il filo conduttore che lo lega a quello dell'anno precedente e del quale si riprendono alcuni elementi che sono un po' le pietre miliari dell'ACP: i diritti e la formazione. I diritti intesi non solo, e non tanto, come concetto in generale, ma come riflessione sul diritto alla salute di quel singolo bambino che incontriamo in ambulatorio, che ha una domanda precisa e alla quale cerchiamo di rispondere come siamo capaci. Sì, "siamo" perché la risposta va cercata insieme, insieme al paziente prima di tutto, ma anche insieme a quei saperi non medici che contribuiscono alla nostra formazione e con essa al modo col quale interpretiamo il mondo. È per questo che abbiamo pensato di proporvi le riflessioni che in questi anni abbiamo condiviso con sociologi, antropologi e bioeticisti e che mai pensavamo avrebbero potuto incidere così profondamente sul nostro modo di essere e di fare i medici. Ma non ci accontenteremo di ascoltarli perché con i casi clinici li metteremo alla prova e vedremo se il loro contributo può aiutarci a trovare una possibile soluzione a quella domanda che Panizon, rispondendo a un editoriale di Quaderni acp, rilanciava su MeB di un anno fa: "È davvero possibile, è connaturato al ruolo del medico, alle sue conoscenze biologiche e fisiopatologiche, alla sua formazione, al suo sapere, “occuparsi” del bambino, della famiglia, e dell’ambiente?"
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